EVOLA, FREDA E NORIMBERGA. Lettera di un laureato intorno ad una tesi evoliana.

Richiestomi da Franco Freda, questo resoconto della “discussione” della mia tesi di laurea è stato pubblicato sul n° 56 del periodico delle Edizioni di Ar (Margini, Letture e Riletture). All’Editore Freda e alla milizia editoriale di Ar, rivolgo il saluto rituale: SURSUM CORDA!



Il Male, e noi lo sappiamo bene, è nei sistemi di vita che l’uomo si è creato. Finché ce la prenderemo con le sue forme mitiche se la caverà sempre bene. Uno sforzo di analisi si impone. Apriamo gli occhi su ciò che i mass media hanno fatto di noi. Smascheriamo ciò che il potere cerca di nascondere. In ogni campo. Robert Faurisson



La teoria gramsciana, secondo la quale sarebbe vana quell’azione esclusivamente protesa alla conquista del potere politico che prima non avesse attuato la formazione delle coscienze collettive attraverso un’egemonia culturale, è senza dubbio condivisa dagli undici docenti membri del sinedrio che, il 28 novembre del 2005, nella Facoltà di Filosofia di Cagliari, ha processato la mia Tesi di alaurea, rea di aver vuto come oggetto di studio Il Tradizionalismo di Julius Evola. Una sala adibita a sfornare periodicamente dottori più o meno asserviti ai bisogni ideologici di questo sistema politico, veniva trasformata in un’arena politica, in cui l’antitesi Amico–Nemico di schmittiana memoria diventava lo sfondo della lotta tra i gendarmi della modernità - i rappresentanti della casta dei servi venuta a dominare l’ultimo tempo del Kali yuga - e i maledetti della controdecadenza, testimoni del valore eterno presente nelle cose divenute invisibili e mute nelle lontananze. E’ risaputo che i magnati dell’intellighenzia nostrana, trovato il loro habitat naturale all’interno dell’Università italiana (bieco laboratorio atto alla vivisezione dei cervelli secondo il suddetto insegnamento di Gramsci), in nome di quel feticcio moderno chiamato democrazia processano e condannano, assolvono e condonano a loro piacimento. Ma il tanto amato e osannato sistema democratico svela la sua connaturata ipocrisia proprio nel momento in cui si trova a fare i conti con ciò che non è allineato al Potere menzognero dominante - e così, il pluralismo sbandierato dai democratici, diviene privilegio per molti ma non per tutti. Succede, allora, che i cani da guardia del potere, si prendano il lusso di tramutare la democrazia nel suo esatto contrario: alchemica trasfigurazione, questa, metodicamente non ammessa e occultata, perché, come osservava George Orwell, chi difende un regime, qualche che esso sia, lo proclama democratico. Se poi democrazia diventa sinonimo di antifascismo militante, allora ecco comparire puntuale lo spettro di Norimberga. Perché, a guardar bene, è sempre lo spirito di Norimberga che si aggira per l’Europa: Nuremberg ou la Terre Promise, presagì in maniera straordinariamente lucida Maurice Bardèche. Che abbia il volto della Legge Mancino o delle leggi liberticide antirevisioniste o, come in questo caso, del filosofo salariato dell’Università italiana, a parlare è sempre Norimberga e il suo essere meschinamente vendicativo. Non c’è dubbio che le recenti parole di Giampaolo Pansa, secondo cui la storia italiana dal ’45 è sempre stata contrassegnata dalla regola brutale che dice: chi vince parla e scrive, chi perde sta zitto, sono di una realtà sconcertante. E poiché io sono stato bollato a priori dalla commissione di laurea come uno di quelli che spiritualmente stanno dalla parte di chi nella metà del secolo scorso ha indossato i panni del cattivo, non mi sarebbe dovuto essere concesso parlare, in quanto cattivo, appunto, e in quanto perdente, soprattutto. Per questo motivo, prima di varcare la soglia del patibolo in cui avrei dovuto discutere la tesi in questione, la relatrice che aveva seguito il mio lavoro, la professoressa Vanna Gessa-Kurotschka, si prese cura di darmi l’estremo avvertimento, consigliandomi (o minacciandomi?) di porre attenzione a quel che avrei detto durante la discussione della Tesi (pena il non conferimento di titolo di dottore), in quanto il presidente della commissione di laurea - questa la motivazione - era un comunista di vecchio stampo molto sensibile a “certi temi”. Quali fossero i temi nei confronti dei quali il presidente provasse particolare sensibilità, non era difficile capirlo: il rimando a fatti accaduti sessanta anni prima era facilmente immaginabile. Ma assurdo appariva il voltafaccia della relatrice, la quale, pur avendo avallato lo studio su Evola, sentenziava lapidaria l’adesione all’ideologia nazista non solo del tradizionalista italiano, ma anche del laureando Mele. Mi chiedo cosa sarebbe successo se la Tesi avesse avuto come oggetto di studio sant’Agostino: forse sarei stato messo nella nicchia di una Chiesa in odor di santità? O ancora, mi domando se una tesi su Aleister Crowley avrebbe fatto scattare l’arresto del sottoscritto in quanto segno di appartenenza alla triste masnada che portava il nome di Bestie di Satana; o se uno studio sul marchese De Sade avrebbe fatto venire il dubbio che dietro il futuro dottore in realtà si nascondesse un pedofilo degno delle più riprovevoli aberrazioni sessuali…Ma Evola è Evola. Come ha scritto Piero Di Vona: Nella Repubblica democratica italiana Mussolini non fa più scandalo, prova ne sia che i suoi nipoti seggono in Parlamento. Ma continua a far scandalo Evola che non fu nemmeno iscritto al partito fascista. Il seguito si può immaginare. Nel banco degli imputati, io ed Evola .Ma non bastava. L’esorcismo ideologico aveva bisogno di altri demoni.Oltre il Barone, io mi permettevo di riportare nel mio studio una nota su Adolf Hitler e il nome di Adriano Romualdi; un altro capo d’accusa veniva letto dal gàrrulo controrelatore prof. Orsucci, docente di Filosofia Contemporanea, nei confronti di un altro imputato, il quale avrebbe rappresentato l’anello di congiunzione tra me e il Barone: Franco Giorgio Freda, l’uomo nero che potrebbe benissimo sostituire il lupo cattivo o l’orco nelle fiabe dei bambini e, vista la reazione dei docenti non di certo in età d’asilo, potrebbe figurare bene nei panni di qualche sinistro personaggio in un film noir, capace di turbare le notti insonni degli adulti. Processato in contumacia in quanto spacciatore di stupefacente ideologico di colore nero o comunque tendente al bruno, l’editore Freda costituiva l’estrema e improponibile blasfemia e l’aver acquistato i testi dalle famigerate Edizioni di Ar e l’aver citato La disintegrazione del sistema dell’editore padovano nella tesi di laurea, l’estremo gesto terroristico attuato dalla mia persona.
Mi viene in mente che nel lontano 1933, qualcuno esortava gli studenti al rogo dei libri. Oltre al risparmio di fiammiferi, la differenza che passa tra il bruciare i libri e vietarne l’acquisto mi pare inesistente.Che i nipotini di Marx siano stati battezzati da Goebbels? Dubbio irrilevante. Franco Giorgio Freda destava agli occhi degli attoniti docenti, un senso visibile di repulsione cento volte maggiore rispetto a quella suscitata negli stessi da Evola, Hitler e Romualdi messi insieme. A detta dell’Orsucci, l’aver utilizzato libri stampati dalle Edizioni di Ar, costituiva la prova necessaria affinché l’eretica Tesi venisse giudicata con il minimo dei voti proponibili ( 106/110) - pur se, parole impiegate dello stesso controrelatore, si trattava di uno studio argomentato con molta intelligenza. A processo concluso, stringo educatamente le mani degli inorriditi docenti, nonostante la consapevolezza che, se avessero potuto, mi avrebbero appeso a testa in giù. Altrettanto educatamente ringrazio per il processo politico e mi accomiato con un solenne e volutamente provocatorio molti nemici molto onore, il quale, a giudicare dalle facce piuttosto scosse e sconcertate dei giudici, deve aver provocato non pochi fremiti nel loro animo bonario. Il gelo cala nella sala; lo sbigottimento del sinedrio è pietrificante; il dubbio diviene certezza incontrovertibile! Ignazio Mele è un nazista! Come Evola e come Freda!
Ergo, la purificazione. Il cicaleccio stridulo e volgare diffondeva la notizia dell’anno. E così, vengo a sapere che in mia assenza e in presenza del laureato successivo, veniva celebrato il momento estatico, l’esaltazione del silenzio che attenua il dolore, l’annichilimento esorcizzante che prelude alla rinascita; l’atto con cui il fetore dello zolfo viene sostituito dal profumo rassicurante dell’incenso: il rosso consesso decideva all’unanimità di osservare, con liturgica commozione, un minuto di silenzio in memoria delle vittime della Shoah. Al silenzio rispondo con il silenzio, ma una riflessione si rende obbligatoria. E’ proprio vero, come ha sentenziato Adorno, che dopo Auschwitz, non è più possibile fare poesia? O sarebbe meglio dire che dopo Auschwitz, non è più possibile proferir parola, almeno per chi non ha piegato la testa al ciarlare bigotto, petulante e plebeo del Pensiero Unico e tirannicida dei nostri tempi?

Ignazio Mele




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